Era il 1995 quando un accattivante riff di chitarra di Mark Mancina accompagnava l’esordio cinematografico del regista californiano Michael Bay, che assieme agli attori Will Smith e Martin Lawrence, diede vita a “Bad Boys”, uno dei maggiori successi di botteghino per la Columbia Pictures. Da allora la carriera di Bay si è incentrata esclusivamente sulla realizzazione di pellicole ad alto tasso di spettacolarità e coinvolgimento. Aiutato dal produttore Jerry Bruckheimer (e dall’ex socio Don Simpson), ha diretto per questo dei veri successi commerciali quali “The Rock”, “Armageddon” e “Pearl Harbor”. L’unione lavorativa tra i due viene a mancare proprio quando decidono di dare ai fan uno dei seguiti più richiesti, “Bad Boys 2”.
Il film delude unanimemente la critica e il pubblico a causa degli eccessi che contiene, appesantendo inutilmente una storia semplice, ed andando a disfare il perfetto bilanciamento tra humor e azione che aveva contraddistinto il capostipite. Ma dopo due anni nei quali Bay ritorna al mondo dei videoclip e delle pubblicità, dedicandosi anche alla produzione di remake horror con la sua Platinum Dunes (tra questi “Non aprite quella porta” e “Venerdì 13”), egli trova nel collega regista/produttore Steven Spielberg una nuova possibilità per riscattarsi agli occhi di tutti, dirigendo “The Island” kolossal fantascientifico sul tema della clonazione, scritto da Alex Kurtzman e Roberto Orci ( loro “Transformers” e il recente “Star Trek”) e prodotto dalla Dreamworks.
Anche se le premesse erano ottime, il titolo che vede come protagonisti Scarlett Johansson (alla sua prima esperienza in un film d’azione) e Ewan McGregor, non riesce a conseguire il successo sperato, tanto che l’acquisizione della Dreamworks da parte di Paramount, sembra sia avvenuta principalmente per salvare la casa dal certo fallimento dovuto anche in gran parte all’alto budget speso proprio per “The Island”. Il fiasco rumoroso non fa perdere a Spielberg la fiducia in Bay, tanto da consegnare nuovamente in mano a questo le redini di un altro blockbuster ispirato ad una linea di giocattoli in voga fino a metà degli anni ‘90: “Transformers”.
Nonostante i molti detrattori del regista californiano, la pellicola ispirata ai personaggi della Hasbro si trasforma in un successo commerciale da quasi un miliardo di dollari, riscattando definitivamente Bay agli occhi del pubblico e della critica (anche se questa non proprio in modo unanime). Malgrado gli alti e bassi, il cinema di Michael Bay, sebbene possa apparire superficiale e blandamente votato all’azione, è invece una visione profonda dell’estetica pura che mette sempre dei meccanismi cardine al suo centro. “The Island” è forse l’esempio più lampante di questo concetto, ove la regia citazionista ingloba e rielabora classici di ogni tipo, appropriandosi però solo del concetto estetico piuttosto che dei contenuti.
Bay racconta le sue storie attraverso degli ovvi punti d’incontro presenti in ogni suo film (i meccanismi cardine a cui si faceva riferimento sopra), come ad esempio il patriottismo (quasi sempre esasperato), l’importanza della famiglia e la stereotipizzazione dei personaggi secondari (bellissimi ad esempio figure come il capo della polizia interpretato da Joe Pantoliano nei due “Bad Boys”, o il pazzo petroliere Rockhound in “Armageddon”), ma il vero filo narratore sono le immagini, i colori, i movimenti di macchina. Nel suo modo veloce e frastagliato, anche caotico di proporre il cinema, ci sono linee guida prima di tutto estetiche e ben precise, create per coinvolgere lo sguardo dello spettatore, prima ancora che il cervello, ed attraverso l’occhio percepire l’emozione di un passato da raccontare (non è un caso che proprio in “Transformers” Optimus Prime, mostri la sua storia proiettandola proprio dal sul occhio meccanico), di un futuro che si può riscrivere, di una vita che può finalmente essere vissuta da chiunque (e la scena finale di “The Island” ove un esercito di cloni prende coscienza delle propria esistenza).
Ecco quindi che ad una non superficiale analisi le pellicole “giocattolo” di Bay, hanno tutte le caratteristiche di un cinema d’autore che porta con se tematiche ricorrenti, ma soprattutto un modo di esporle ben definito, legato a linee narrative che utilizzano l’immagine e la cura di essa come catalizzatore di emozioni, tanto da trasformare la trama in un pretesto per poter realizzare qualcosa di visivamente opulento, nonostante questo non significhi scarnificare i contenuti, dato che il tessuto narrativo seppur paradossalmente meno comprensibile ad una visione “di testa” è tutt’altro che blando, o secondario. Arrivando verso la fine, viene difficile, ma sarebbe anche stupido, definire Michael Bay un semplice regista di mestiere nonostante la tipologia di film da lui realizzati, ma sicuramente c’è da essere convinti che non ha ancora finito di stupire tutti noi spettatori.
Pubblicato su NEXTPLAY.IT