Il Nascondiglio – L’angusto spazio dell’oscurità
Il cinema riscopre una forma che sembrava estinta, una costruzione narrativa debitrice ai romanzi di inizio Novecento grazie a Pupi Avati. L’inizio, ma anche la struttura, del suo nuovo film riporta inevitabilmente la genia degli scritti di Agata Christie. In una notte in cui infuria una tormenta di neve, dentro una casa la vita di cinque donne cambierà per sempre, e solo l’edificio ricorderà i fatti accaduti in quelli ore, chiudendo a tutto quello che sta fuori di esso le sue porte per sempre. Cinquanta anni dopo sarà nuovamente una donna ad aprire le porte di quella villa, iniziando a ricostruire il passato che si cela ancora tra quelle stanze.
Costruito su di un corpo narrativo che ricorda un’avventura del detective Poirot, “Il Nascondiglio” si apre di fronte agli occhi tramite inquadrature ravvicinate e soffocate, tipiche del cinema minimale e concentrato sui corpi che investe i lavori del regista bolognese. La moltiplicazione dello spazio diviene quindi un’ossessione per Avati, che tenta continuamente di aumentare le dimensioni del chiuso tramite l’alterazione del tempo. Durante la visione il pensiero ritorno a quel cinema manieristico italiano anni ’70 di cui l’autore fu uno degli illustri esponenti, autocitandosi almeno un paio di volte in questo nuovo film, che fa dell’atmosfera e delle pulsioni della mente il suo punto di partenza, ma non d’arrivo.
“Il Nascondiglio” è una vera e propria macchina del tempo, che viaggia partendo dal passato tra i ricordi di un cinema pratico e divertente anni or sono, estintosi dopo aver molto probabilmente dimostrato tutto quello che poteva riservare allo sguardo dello spettatore. Non è infatti nella realizzazione dell’idea che il film fallisce, ma nel suo essere fuori tempo massimo che ha costretto il regista ad essere combattuto sulla strada da percorre. Dopo una buona presentazione dello sfondo narrativo e dei protagonisti, il film di Avati si trasforma in un animale impazzito che sbatte addosso a tutti i muri della sceneggiatura.
Indeciso sulla strada da percorrere per portare a termine tutte le strade intraprese inizialmente, ed a ogni urto la pellicola vira bruscamente dando una nuova forma al corpo, che diviene un mostro impossibilitato a comprendere a quale genitore appartiene: se alla filmografia di genere, all’horror, al fantastico o al “giallo”. Uno spreco di talento e opportunità per inseguire il sogno di assecondare i gusti d’ogni tipo di spettatore deciso ad entrare all’interno della “nuova casa dalle finestre che ridono”.