The wolf of Wall Street – l’incubo moderno
Per fortuna è accaduto. “The wolf of Wall Street” è quella pellicola che ci si aspetta di vedere quando il regista italo-americano sta dietro la macchina da presa, quel film che fa utilizzare l’aggettivo “scorsesiano” per indicarne le caratteristiche peculiari, perché i caduti di Boston ed i malati mentali pur contantdo su un indubbio fascino, non possono competere con l’esuberanza e gli eccessi che il regista non ci proponeva dai tempi di “Casinò”. Ed è proprio questo l’aspetto più interessante della sua ultima opera filmica, la visione dell’eccesso, l’iperbole anarchica che scaraventa lo sguardo in mezzo a corpi da possedere e droghe da provare.
Fa quasi da sfondo il personaggio di Belfort, perché a Scorsese più che la persona interessa imprimere sulla celluloide l’improponibilità di una vita simile, completamente dannata, incapace di salvarsi anche quando la redenzione gli viene servita su di un piatto d’argento, perché l’uomo non si accontenta di stagliarsi ai margini dell’immagine, di vivere agiatamente un sogno, ma vuole essere autore maledetto dei propri peccati, assicurandosi che la caduta è da lui voluta proprio come la sua ascesa. Eppure all’inizio la scelta di vivere felicemente è già avvenuta, il protagonista è già sposato con una donna che lo ama a tal punto da assecondarne i suoi sogni che lo porteranno alla disfatta.
Belfort quando inizia il racconto ha già una vita, quella che si era costruito fino a 22 anni, ma sarà lui stesso a distruggerla dopo l’incontro con il mefistofelico broker Mark Hannah (un McConaughey che in un paio di minuti imprimerà il ritmo a tutto il film con un motivetto di pugni sul petto). “The wolf of Wall Street” non è tanto un film sulla caduta del sogno, ma sulla nascita dell’incubo moderno, qualcosa di marcio che corrompe chiunque ne entri in contatto, la mela di Biancaneve che tutti vogliono mangiare pur conoscendone le conseguenze.
Addirittura i padri non sono più in grado di indicare la via da seguire, dato che vorrebbero essere più giovani per poter godersi vagine pelate e qualche droga. In mezzo a tutto questo delirio Scorsese riscrive la figura della donna moderna, non più semplice bellezza dedita al servilismo maschile (anche se è abilissimo nel presentarla stereotipata quanto basta per sviare lo sguardo), ma vera e propria ripartenza della famiglia, punto cardine dove tornare per cercare il perdono ammettendo le proprie colpe.
Ecco forse è questa la cosa più dirompente dell’ultima opera di Scorsese, il filmare la donna moderna per quello che è, ossia la parte più forte del nucleo familiare, perché l’uomo di oggi incarnato da Belfort ci ricorda seppur in modo diverso quel dottor Harford che girava smarrito tra le strade notturne di una New York quasi deserta.