Manhunter – Frammenti di un omicidio

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Manhunter

di Michael Mann

La storia in breve…

Will Graham (William Petersen) è il miglior profiler della FBI. Un tipo zelante che riesce a immergersi nella mente dell’assassino a tal punto che dopo il suo ultimo arresto, il Dr. Hannibal Lecktor (Brian Cox) finì in una clinica per riprendersi dallo shock subito. Il suo capo Jack Crawford (Dennis Farina) è alle prese con una nuova serie di delitti perpetrati da uno psicopatico che agisce secondo il ciclo lunare, ammazzando intere famiglie. Soprannominato “dente di fata” per via dei morsi che lascia sui corpi delle vittime, a pochi giorni dall’ennesima luna piena, l’unico modo per fermarlo è convincere Graham a ritornare in servizio e occuparsi del caso. Inizierà così per l’agente un nuovo cammino nell’oscura mente di un criminale, che lo costringerà ad affrontare le sue più profonde paure.

Dio è straordinario! Mercoledì scorso, nel Texas, ha fatto cadere il tetto di una chiesa su 34 fedeli che si prostravano a cantare inni alla sua grandezza!

Il Film

“Manhunter – frammenti di un omicidio” (questo il titolo completo italiano) è il terzo lungometraggio ad opera di Michael Mann e delinea perfettamente le caratteristiche di un cinema in cui le immagini sono al servizio di una sceneggiatura precisa nel descrivere le azioni dei personaggi, quanto puntuale quando deve lasciare lo sguardo inerpicarsi verso derive visive dalla potenza devastante. La storia semplice e lineare vede un detective indagare sulle scene del crimine per ricostruire l’identità dell’assassino, ma non per questo risulta banale o scontata nel suo sempre più frenetico evolversi. Mann che adatta il libro “Red Dragon” scritto da Thomas Harris, primo tomo della saga che si svilupperà attorno alla figura di Hannibal Lecter (ma in questo film è Lecktor), lavora per sottrazione di situazioni e addizione sulle personalità dei personaggi, aumentando a dismisura i tratti che caratterizzano quelli del suo protagonista.

Il regista è conscio che Graham è un pretesto per raccontare le storie legate ai due psicopatici che compaiono nel racconto, opera una scelta fortissima mettendoli in scena il meno possibile, riempiendo la mente del detective, di conseguenza quella dello spettatore, di ossessioni e fantasie legate a questi (prologo perfetto della saga dedicata al cannibale Lecter). Arriviamo alla fine del racconto infatti ove la figura che maggiormente rimane impressa è quella di Lecktor, non a caso quella che compare una decina di minuti in due ore di pellicola ma così forte da scavare un solco nello sguardo di rara intensità. “Manhunter” però oltre ad una sceneggiatura solida e una regia incrollabile, grazie al lavoro di Dante Spinotti, raggiunge vette visive uniche, con una fotografia annegata in un tripudio di luci al neon e geometrie di una bellezza che toglie il fiato. Michael Mann dopo l’elettrizzante esordio con “Strade Violente” e il brusco scivolone de “La Fortezza”, trova un equilibrio perfetto tra estetica e contenuto realizzando un film che segna un punto di svolta per il genere con cui inevitabilmente tutti dovranno confrontarsi.

Al mio cospetto sei soltanto un verme, ma senza rendertene conto sei stato prescelto per una grande trasformazione. Sei come un buco nel bozzolo e puoi fare solo una cosa correttamente: tremare.

Appunti: il thriller moderno passa da qui

Nel modo più diretto possibile voglio esprimere due concetti fondamentali riguardo “Manhunter”. Il primo è che stiamo parlando non solo di un cult, ma di un capolavoro del cinema di genere. La seconda è che se state leggendo questa recensione senza conoscere il film dovreste uscire di casa, andare in negozio, comprarlo, tornare a casa guardarlo due o tre volte, imparare a memoria la colonna sonora e solamente allora riprendere la lettura di questo appuntamento con la rubrica Rewind. Assodati i primi due punti possiamo iniziare a parlare del film di Michael Mann. Molto spesso nel cinema accade che le vicende produttive legate a una pellicola siano quasi più importanti o interessanti della stessa. Non è questo il caso, o almeno lo è solamente in una minima parte. “Manhunter” esce negli USA nell’Agosto del 1986, prodotto da Dino De Laurentiis che aveva fiutato l’affare legato ai romanzi di Harris, il film però si rivela fallimentare al botteghino. Il cambio del titolo rispetto al romanzo originale, da “Red Dragon” a “Manhunter” e la natura a suo modo sperimentale della pellicola non hanno aiutato la corsa al box-office del titolo. Non è bastato un attore come William Petersen, reduce dal successo di “Vivere e morire a Los Angeles”, né un regista che nel frattempo grazie alla serie tv “Miami Vice” era amato e conosciuto da tutti, per portare il pubblico fuori di casa e dentro la sala. Sarà con il film tratto dal secondo romanzo di Harris, “Il silenzio degli innocenti”, che la pellicola di Mann godrà della giusta risonanza, anche se retroattiva. 

Eppure “Manhunter” è ancora oggi uno spettacolo emozionante dove sono visibili gli elementi fondanti di tutto il cinema del regista americano, come la centralità della professione dei protagonisti, la cura per i dettagli di secondo piano, l’importanza dello spazio scenico e del ritmo narrativo, ma soprattutto una cura unica nella scrittura delle personalità dei protagonisti. L’unica nota su cui si può muovere qualche critica risiede in alcuni momenti mal raccordati in fase di montaggio, ma si sta parlando del proverbiale pelo nell’uovo. Con questo titolo Mann porta al cinema la rivoluzione che stava attuando in televisione con la serie “Miami Vice”, che potremmo chiamre “La filosofia estetica dell’azione”. Nonostante il racconto cupo alla base del film, il regista crea una messa in scena coolness estranea afino ad allora al prodotto di genere che segna un nuovo punto di partenza per tutti i polizieschi e thriller di li a venire (qualche anno dopo con “Heat” la sfida farà la stessa incredibile “magia” su un titolo di stampo diverso). Se infatti “Manhunter” non ha avuto al botteghino l’impatto sperato dai produttori, non può certo passare inosservato cosa ha scatenato a livello cinematografico: una rivoluzione. Dante Spinotti (che circa vent’anni dopo sarà direttore della fotografia del remake) e Michael Mann hanno reso accattivante, ma più semplicemente, bello, qualcosa di completamente opposto, ossia il lavoro del profiler (una figura che per lavoro di fatto osserva, analizza e crea una supposizione). Durante le due ore di durata il film costruisce un mondo con una propria mitologia, estremamente complesso ed ermetico, ma così affascinante da attirare ad ogni istante lo sguardo su di sé. “Manhunter” ha lo stesso effetto di quelle scene disgustose che non riusciamo a smettere di guardare come ipnotizzati, con la differenza sostanziale che questo accade con il film perché è ammaliante e spettacolare nel suo minimalismo da faticare a crederci. Si dovrà attendere fino a “Il silenzio degli innocenti”, per vedere nuovamente un thriller capace di settare nuovamente le coordinate del genere. Nonostante siano passati trent’anni da quel agosto datato 1986, “Manhunter” di Michael Mann è una pellicola che oggi in un cinema sempre meno realistico e violento echeggia ancora più di ieri.

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