Wolf Man di Leigh Whannell: licantropia tra horror e metafora
Credo che questo Wolf Man confermi una cosa importante: chi ama davvero il cinema horror dovrebbe tenersi stretto un regista e sceneggiatore come Leigh Whannell. Anche se questo suo ultimo film non è riuscito completamente – o almeno non quanto il precedente L’uomo Invisibile – merita comunque attenzione. Perché? Basta riflettere un attimo sulla carriera di Whannell.
Assieme al suo inseparabile compagno di merende James Wan, ha dato vita a due delle saghe horror più iconiche degli ultimi vent’anni: Saw e Insidious. E non è finita lì. Quando ha deciso di passare dalla scrivania alla regia, ci ha regalato Upgrade e il già citato L’uomo Invisibile. Insomma, un ruolo da protagonista nel cinema di genere degli ultimi anni se lo è guadagnato con pieno merito.
Con Wolf Man, Whannell torna a rielaborare i mostri classici della Universal, adattandoli alle sensibilità moderne. Il film cerca sì di intrattenere, ma lo fa anche portando avanti una riflessione sul concetto stesso di “mostro” e sulle sue azioni. Se L’uomo Invisibile parlava di violenza domestica, Wolf Man sposta il focus sul rapporto genitore-figli, mostrando come i pericoli che mettono a rischio una famiglia possano anche venire dall’interno e non solo da minacce esterne.
Chiariamolo subito: Whannell non è Kubrick. Quando affronta certi temi, usa più un evidenziatore con la punta a martello che un bisturi affilato. Però già il fatto che un film su un lupo mannaro non si limiti a mostrare arti mozzati e fiumi di sangue (che andrebbero benissimo, per carità), è quasi un miracolo. Questo dimostra che esistono registi capaci di cercare un equilibrio tra spettacolo e sostanza narrativa. E che, in piena era dei franchise, c’è ancora qualche produttore disposto a investire in progetti più interessanti che facili da vendere.
Un film difficile da collocare (e da digerire)
Wolf Man è un film complicato da far digerire a un pubblico che si divide principalmente in due fazioni.
Da una parte ci sono gli irriducibili del lupo mannaro classico, cresciuti con Un lupo mannaro americano a Londra o L’ululato. A questi, qualunque nuovo film sembrerà sempre inferiore ai capolavori del passato (e grazie al… beh, ci siamo capiti).
Dall’altra parte, c’è il pubblico “di bocca buona”, che vuole solo azione, proiettili d’argento e mutazioni al chiaro di luna, stile Underworld o Dog Soldiers. A loro non interessa troppo la metafora, vogliono il mostro e basta.
Whannell, invece, lavora per sottrazione e cerca un punto d’incontro tra queste due anime del cinema licantropesco.
La trama di Wolf Man
Il film segue Blake, un uomo dal passato tormentato, con un bel rapporto con la figlia, uno complicato con la moglie, e uno davvero difficile con il padre, che lo ha segnato a tal punto da spingerlo ad abbandonare le terre dell’Oregon dove era cresciuto. Quando arriva la notizia della morte del padre, Blake decide di tornare per gestire l’eredità, cogliendo l’occasione per riunire la famiglia prima che si sgretoli del tutto.
Un incidente durante il viaggio, però, li mette faccia a faccia con una strana creatura che morde Blake. Da quel momento, la famiglia si rifugia nella vecchia casa paterna, cercando di sopravvivere alla notte e al mostro che li bracca. Ma è dentro Blake che avviene la vera metamorfosi: la ferita lo cambia, i suoi istinti si fanno più violenti, incontrollabili, mettendo a rischio chiunque gli stia vicino.
Foreste minacciose e licantropia come malattia
In Wolf Man, l’ambientazione è protagonista tanto quanto i personaggi. Le foreste desolate dell’America del nord pulsano di vita e minaccia, quasi più delle creature che ospitano. Whannell interpreta la licantropia come una malattia degenerativa, a decorso rapidissimo, che divora la mente prima ancora del corpo. Una scelta rischiosa, ma che funziona, soprattutto grazie a un comparto tecnico molto curato, in particolare il design sonoro, che è il vero fiore all’occhiello del film.
Dove invece Wolf Man fatica è sul fronte dello spettacolo puro. La tensione non manca, la violenza nemmeno, ma il tono è troppo melanconico perché questi elementi esplodano davvero. Il dolore che Blake infligge a moglie e figlia resta sempre in primo piano, appesantendo la narrazione in modo graduale.
Un film imperfetto, ma destinato a durare
Whannell non riesce a trovare il perfetto equilibrio tra azione e riflessione, ma questo non rende Wolf Man un film mediocre. Anzi, sono convinto che col tempo verrà riscoperto da molti, e che in tanti arriveranno alla fine con una sensazione di vuoto, causata da un finale forse prevedibile, ma tutt’altro che consolatorio.