The Ring

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Può un remake di un film cult di suo divenire a sua volta cult? La risposta è no, ma “The Ring” diretto nel 2002 da Gore Verbinsky dimostra come il detto che l’eccezione conferma la regola ha un suo fondamento. Tratto dall’omonimo romanzo scritto da Koji Suzuki, viene portato sul grande schermo per la prima volta dal giapponese Hideo Nakata nel 1998, il titolo origianle è “Ringu” e si rivela ben presto un successo in terra nipponica. Viene così adocchiato dalla Dreamworks che mette su un cast tecnico e artistico in grande spolvero per occidentalizzare il tutto, tentando di replicarne il successo.

The Ring” non solo ha conquistato le platee mondiali (costato 48 milioni di dollari arriva a incassarne quasi 250), ma come dicevamo nelle prime righe è diventato a sua volta un film di culto, capace di scavare un solco nell’immaginario popolare, sdoganare gli horror orientali e dare il via a due trascurabili seguiti (uno tra l’altro girato dallo stesso Nakata). La storia vede la giornalista Rachel (Naomi Watts) indagare su di una videocassetta che provoca la morte di chi la vede dopo sette giorni.

Ad aiutarla nell’indagine l’ex fidanzato Noah (Martin Henderson), che inizialmente non crede alla storia raccontatagli da Rachel, ma dopo aver visto il video inizierà una sfida contro il tempo per capire chi lo abbia girato, ma soprattutto, chi sia quella ragazzina dai capelli lunghi presente nel filmato e che sembra essere la causa di tutto. A Rachel rimangono solamente sette giorni, prima di diventare l’ennesima vittima. “The Ring” di Gore Verbinsky è allo stesso un remake della controparte giapponese, ma anche film a sé stante, sia nei confronti dell’originale che dei successivi seguiti.

Il regista riesce, come lui solamente Martin Scorsese qualche anno dopo con le dovute proporzioni, a fare propri gli stilemi del cinema orientale e a trasportarli dentro una intelaiatura estetica occidentale, trovando un proprio equilibrio tra ritmo narrativo ed esigenze di spettacolo. In “The Ring” le simbologie del genere tipiche delle produzioni giapponesi, si mescolano e trovano nuova forza nella messa in scena del cinema americano, dando vita ad una convivenza teorica impossibile.

Il risultato è un horror inquietante, che gioca sul concetto di visione e di come l’immaginario, anche macabro, riesca ad irrompere nella realtà attraverso l’immagine (grande cura è stata riposta nel filmato che si ritrova a vedere la protagonista). Il ritmo è un crescendo ben cadenzato che nella parte finale mostra alcuni segni di cedimento, quando la spettacolarizzazione dell’epilogo si sposta da una dimensione intima a una maggiormente superficiale. Praticamente quando il film deve per esigenze narrative far collimare realtà e finzione qualcosa non funziona appieno, restituendo una sensazione di già visto. 

La fortuna di un’operazione come questa di “The Ring” del 2002 va non solo ricercata nel valore della pellicola, ma anche nel suo essere stata la prima di una serie di rifacimenti hollywoodiani, incapcai di ripeterne l’exploit positivo. Basti pensare a successori come “Dark Water” o “The Grudge” incapaci di tradurre la complessità della simbologia orientale, per un pubblico differente, dando vita allo stesso tempo a dei remake non solamente inutili, ma anche decisamente poco riusciti. “The Ring” a quasi vent’anni dalla sua uscita, non solo è quell’eccezione che conferma la regola, ma rimane uno tra i film horror più importanti degli anni 2000, nonché ancora un godibilissimo spettacolo per gli amanti del genere e non.

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