Man on Fire

Man on Fire – Redenzione o riscatto?

Tony Scott è da sempre un regista visto con curiosità sia dalla critica che dal pubblico, per via del suo modo di fare cinema a tratti sperimentale sul fronte visivo (e questo “Man on Fire” rientra appieno in questa categoria), ardito, non sempre funzionale a voltre troppo carico di moralità o retorica dal dubbio gusto. In questo capitolo del suo cinema, Scott ripesca la classica storia di vendetta utilizzando però il suo personaggio feticcio, ovvero un’uomo in caduta libera sul suo “io” disperatamente bisognoso di qualcosa, o qualcuno, per far si di ritornare a vivere chiudendo la nera parentesi di eventi che lo hanno accompagnato nel presente.

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Invevitabile diviene quindi la caratterizzazione visiva del protagonista principale Creasy, il quale riflette le sue paure, angosce e timori sul suo corpo sottoforma di ferite rimarginate ma non dimenticate, rughe che non riescono a sparire, occhiaie dovute all’abuso di alcool per anestetizzare spirito, corpo come pure il cervello. Un personaggio borderline in bilico tra la scelta di vivere o di morire ogni qual volta questo si ritrova solo con se stesso, una persona dalla fosca moralità in cui il confine tra bene e male si sovrappone creandone uno unico di difficile decriptazione.

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Ma la redenzione deve arrivare e Scott la porge a Creasy sottoforma di un proiettile che si rifiuta d’ammazzarlo; nel momento della verità la pistola non spara facendogli iniziare finalmente una nuova vita tra i colori del Messico, ma soprattutto affianco di Pita una bambina normale, con quotidiani bisogni di affetto ed attenzione normalissimi, i quali sono su paralleli molto distanti dalla vita agiata imbastita per lei da mamma e papà. Ma l’equilibrio dura poco, sia tra il tessuto narrativo stereotipato di qualunque clichè, sia nello statico motore che fa muovere il film.

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Il regista inglese sceglie, anche se celato molto bene, di omaggiare la vendetta trasversale romana del fratello Ridley Scott, trasportando all’interno della lotta per la sopravvivenza urbana e sociale il tema, utilizzando un fatto di cronaca nera come il rapimento facendolo collimare con i punti cardinali del suo cinema estetico, estremamente barocco o come da molti definito: “videoclipparo”. La mano del regista inglese muove avanti, indietro, invertendo ritmi e utilizzando dogmi da action movie plasmando la storia a suo piacimento.

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Immagini acide di una società decadente alla quale non è più concessa la redenzione nemmeno dalla casualità degli eventi, “Man on Fire” fa innamorare lo spettatore in maniera morbosa di una ragazzina rapita e di un’uomo che dal vivo verrebbe evitato da chiunque. Il film dura pure troppo per una storia già vista, ma il ritmo è dosato in ogni sua minima parte, distribuisce moralità e retorica fine a se stesse ma trova nella grande mattanza ad opera del protagonista, interpretato da un moribondo Denzel Washington, l’arma della vittoria che trasporta lo spettatore in una favola dal finale scontatamente amaro ma logico e doveroso.

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3.5
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