Mad Max Fury Road – Ritorno all’immagine
Il nuovo film di George Miller è un capolavoro, sgombriamo subito il campo da subito qualsiasi dubbio a riguardo, potrebbe anche non chiamarsi Mad Max e il risultato sarebbe comunque il medesimo, dato che dopo moltissimo tempo il cinema ritrova il racconto visivo nella sua più pura incarnazione. Una trama scarna e lineare, trova il proprio contrappunto contenutistico nelle immagini che si fanno metafora del racconto e incessante sublimazione dello sguardo.
Una pellicola scandita da una colonna sonora perennemente straziata dai suoni del metallo, che distruggendosi si mischia alla polvere del deserto e in mezzo a questo lucidissimo rumore di fondo, ci viene ricordata l’importanza del set reale, ove gli spazi assumono nuovamente il proprio ruolo ed i corpi la giusta consistenza materica.
La macchina da presa può concedersi finalmente il campo lungo (un miracolo), quasi dimenticato nella miscela sintetica dell’immaginario digitale che l’occhio è abituato a codificare. Accanirsi contro la sceneggiatura di questa pellicola, porta alla ovvia bocciatura sonora dell’opera, ed allo stesso tempo però, verrebbe evidenziata la miopia con cui oggi ci si approccia all’arte cinematografica (dando peso alla sola qualità di scrittura del testo).
George Miller con questo suo nuovo film sottolinea come sia indispensabile conoscere il mezzo cinematografico per poterlo apprezzare/decodificare, non si tratta più solamente di analizzarne il racconto (questo vorrebbe dire godersi una minima parte dell’insieme), ma anche le immagini, i suoni, le scenografie, i costumi, le interpretazioni, il montaggio e tutte le parti che sommate assieme creano lo spettacolo.
“Mad Max Fury Road” non è un film anarchico, o definibile “cinema video game” (è comodo sottrarsi all’analisi nascondendosi alla luce del sole), ma estremamente calcolato in ogni sua parte per riuscire a guidare lo sguardo fuori dalle contingenze logiche, in modo che la mente accetti la mancanza totale di verosimiglianza con il mondo reale, seppur da quest’ultimo ne prenda le basi per poi riscriverne le regole.
Ancora una volta la distopia descrive un futuro disastroso, ancora una volta l’uomo ha tessuto il velo del proprio destino nel peggiore dei modi, ma appena Furiosa (Charlize Theron in uno dei personaggi per cui sarà per sempre ricordata), accende i motori della sua cisterna e si mette in marcia, fa la sua comparsa la speranza di un cambiamento e noi con dimentichiamo l’ossessiva ricerca di plausibilità di quanto gli occhi stanno vedendo. Da novello Alice nel paese delle meraviglie, lo sguardo inizia a rimanere incredulo di fronte a quel vortice di eventi che non lasciano tregua.
La pellicola non concede attimo perché l’attenzione si tolga da essa, pena la demolizione dello spettacolo perché il deserto/set Milleriano si regge sulla necessità di portare la mente tra la polvere dove si muovono i corpi ed i rottami, allo stesso tempo sottolinea la pochezza con cui negli ultimi tempi abbiamo piegato lo spirito critico riducendo le capacità di analisi alla mera superficie ed all’esecuzione del contenuto, senza chiederci più se quanto passava davanti stavamo vedendo contenesse al suo interno almeno una idea.
“Mad Max Fury Road” è un concentrato di idee (una su tutte il chitarrista/motivatore), da qualsiasi punto di vista lo si guardi, musiche, montaggio, regia, fotografia e via di questo passo, l’elenco sarebbe lungo ma a comprovare questo è il disorientamento che esso crea, che mai come in questo caso è positivo dato che risveglia dal torpore lo sguardo ormai sterilizzato da produzioni fin troppo settoriali e tutte simili tra loro.
Estenuante ed emozionante, la fuga per la conquista della libertà non mette in difficoltà solamente i personaggi ma anche chi guarda, costretto finalmente a ricordare come il cinema deve andare oltre confini del soggetto, che il racconto deve essere fatto di immagini e suoni (e Mad Max potrebbe non avere dialoghi ed essere comunque assolutamente fruibile), ed è giusto chiedere e pretendere anche questo da un film, perché su questi pilastri esso si fonda, fin dai tempi del bianco e nero, del muto e del primo viaggio sulla luna di Méliès.
Il cinema deve essere un mondo altro ogni volta che le luci si spengono, perché l’oscurità della sala dovrebbe sempre contenere una magia, perché dobbiamo voler vedere qualcosa che non sia sempre e solamente semplice mestiere svogliato e privo di energia.