King Arthur: Il potere della spada – George chi? Il nostro George
Il regno di Camelot si trova ad un passo dalla fine, lo stregone Mordred sta per abbattere l’ultima roccaforte degli uomini, a fermarlo il re Uther Pendragon (Eric Bana) e la sua spada dai poteri magici. Sconfitto il nemico che arriva dall’esterno, il monarca potrà poco contro la minaccia cresciuta al suo fianco: il fratello Vortigern (Jude Law). Uther allora metterà in salvo il proprio figlio Artù, a costo della sua stessa vita, lasciando la sua spada conficcata in una roccia cosicché nessuno tranne i suoi discendenti diretti possano estrarla e utilizzarne il potere.
Cresciuto tra le strade della Londra medioevale (Londinuim) tra criminali e prostitute, Artù (Charlie Hunnam) scoprirà di essere il legittimo re, ma per mettere la corona sulla propria testa dovrà affrontare il suo passato e l’infinita malvagità di suo zio Vortigern. Guy Ritchie è il regista di Londra, a tutti gli effetti la città è il filo rosso che collega tra di loro le sue pellicole migliori. Se guardiamo a ritroso nella sua filmografia ogni volta che Ritchie non muove la sua macchina dapresa tra le strade e i “teppistelli” della capitale del Regno Unito, qualcosa non funziona mai a dovere, il cinema del regista sembra quindi legato a quelle strade e ai bizzarri personaggi che le popolano.
Non fa eccezione alla regola “King Arthur” dove anche questa volta, seppur a ritroso nel tempo, ci ritroviamo nuovamente tra le vie di Londra e questa ci restituisce un Guy Ritchie in ottima forma stilistica. La leggenda di re Artù passa attraverso l’ipertrofia visiva del regista inglese e rinasce sotto una nuova forma, scansando i toni drammatici del poema medioevale, la pellicola dapprima immerge lo sguardo nel suo mondo fatto di cavalieri, criminali e magia, poi rimodella il personaggio principale e il mondo dove egli si muove.
Infine unisce tutti gli interrogativi, pochi e non molto originali a dire il vero, presenti nella sceneggiatura restituendo un finale dove lo sforzo produttivo non solo è tangibile ma è anche innegabilmente riuscito (magari criticabile ma funziona come poche volte capita in produzioni del genere). Guy Ritchie fa passare il ciclo arturiano nel suo “distillato di piccoli criminali londinesi” ed il risultato è che ancora una volta, ciò che conta non è la complessità dell’intreccio, ma il modo in cui viene spettacolarizzato nella sua semplice linearità (le immagini prendo nuovamente potere sul testo).
Il tempo narrativo è importante in “King Arthur” e il regista inglese lo taglia, lo smezza, lo ritaglia e lo ridefinisce come fa da sempre nel suo cinema, con continui flashback, flash forward e tutte quelle caratteristiche che in sala di montaggio definiscono il corpo cinema del cineasta. Oltre alla tecnica, non passano ovviamente in secondo piano i coprotagonisti così come i vari caratteristi che popolano la storia, i perfetti momenti comici, così come le musiche e la fotografia del sempre “bluastro” Mathieson. Guy Ritchie consegna allo sguardo un film divertente e con una precisa identità visiva, ed in un periodo in cui il cinema non può fare a meno di saghe episodiche, o universi condivisi, questo “King Arthur” si rivela qualcosa di cui sarebbe meglio non privarsi.