I tre moschettieri 3D

I tre moschettieri 3D – La barocca estetica del videogioco

Il classico di Alexandre Dumas “I Tre Moschettieri”, ritorna a popolare nuovamente il grande schermo, con alcune novità rispetto alla storia classica di D’Artagnan e colleghi moschettieri. Nelle mani di Paul W.S. Anderson il racconto di cappa e spada più famoso del mondo, si mescola con il videogioco e lo steampunk, proponendo una visione inedita degli eventi e dei protagonisti. Il regista di Resident Evil, sembrava già mostrare progressivamente i suoi limiti visivi di pellicola in pellicola (che stranamente aumentano proporzionalmente ai soldi, spesi per realizzare i suoi lavori), però in questa nuova versione de “I tre Moschettieri” il cineasta inglese non riesce più a mascherarli (a non aiutarlo però c’è anche una sceneggiatura limitata su più fronti).

I tre moschettieri 3D

Anderson pesca senza troppi indugi dai videogiochi e dal cinema (recente, quale Sherlock Holmes di Ritchie, ma anche datato, infatti ci sono ancora gli echi del primo Matrix), per costruire la sua visione del romanzo di Dumas, nel farlo però non rielabora con piglio personale il tutto (l’esempio riuscito di cinema resuscitato in questo caso è “Super 8” di Abrams), regalando allo spettatore un senso di dejà vu, ma soprattutto l’immagine che non scorre nei fotogrammi del film, che si crea nella mente di chi lo subisce, ed è quella di un bambino che scappa dopo essere stato scoperto con le mani nella marmellata.

I tre moschettieri 3D

A un inizio incalzante (anche se poco originale persino per il regista), in cui siamo subito proiettati in un mondo ludico dall’aspetto opulento, per la presentazione dei personaggi (e “presentazione” è il termine più adatto), si assiste poi ad una continuazione noiosa e incolore che raggiunge il suo apice con l’entrata in scena di D’Artagnan (circa a quindici minuti dall’inizio). Il protagonista che da bravo Caronte dovrebbe traghettare lo sguardo all’interno della storia, fallisce miseramente poiché proprio questa è piatta e incolore, grazie allo splendido lavoro dei due sceneggiatori Alex Litvak e Andrew Davies, i quali non riescono a mettere in piedi nemmeno un dialogo che valga la pena ascoltare figuriamoci ricordare.

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Ecco quindi che la dinamicità del cinema di Anderson questa volta viene bloccata e resa statica dallo stesso regista, grazie all’ostinata voglia di stupire con effetti speciali (che hanno una loro via precisa all’interno della pellicola, ossia quella dell’accumolo), regalando i momenti migliori di tutto il film alla Milady di Milla Jovovich, unico personaggio effettivamente riuscito e credibile in questo carrozzone fantasy eccessivo solo ed esclusivamente nella mancanza di prospettive originali, mancante di una qualsiasi strada che porti almeno lo sguardo alla deriva, trasformandosi in qualcosa d’incolore e piatto (il che per un film girato per essere fruito in tre dimensioni è tutto dire), che spaventa nella sua scena finale solo per la possibilità di un possibile seguito.

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