Hostel

Hostel – Quanto vale la vita di una persona?

Quanto vale la vita di una persona? La risposta alla domanda dopo la visione dell’ultima fatica di Eli Roth potrebbe essere: “dipende da quale nazione appartiene e da quanto puoi spendere”. Atipico, spiazzante ed al medesimo tempo classico, sono tutti aggettivi che ben si addicono a questo film scritto e diretto dal giovane regista americano. Qui al suo secondo lavoro in cabina di regia crea un film superficiale ma non vuoto, ottimo nel rinverdire fasti di un genere ma allo stesso tempo troppo grezzo e spiccio negli intenti per una produzione così recente, indirizzata ad una platea di spettatori ai quali lo spavento facile non basta più.

– Diario di un Cinefilo Pigro
Copyright by Lionsgate Entertainment and other relevant production studios and distributors. Intended for editorial use only.

Una pellicola in netto contrasto con se stessa, dove ad un’impostazione lineare ed a un susseguirsi di eventi più o meno scontato, contrappone un’atmosfera cupa, rarefatta ed imbrattata di sangue e carne. “Hostel” come è un film dalla doppia anima, questo diviene palese soprattutto quando a metà pellicola circa, il film si spacca letteralmente in due, e la parte iniziale che assomiglia alle classiche commedie stile american pie, lascia spazio all’horror/splatter stile anni 70/80. Il motore degli eventi, pur discutibile che sia, è la voglia di libido che spinge i tre protagonisti a recarsi in un famigerato ostello in Slovacchia, il quale si dice sia pieno di ragazze dai facili costumi.

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Dal divertimento notturno il passo al massacro diurno dei loro corpi sarà breve e sofferto. La storia è quella tipica di un horror qualsiasi, in cui nel primo tempo si cerca di costruire qualcosa che provochi nello spettatore un’empatia verso i protagonisti, rendendo così più sofferti gli eventi tragici a cui andranno in contro. Ma “Hostel” è  troppo superficiale e l’immedesimazione da parte dello spettatore non arriva mai, ma allo stesso tempo questo restare a galla permette all’occhio esterno di apprezzare le molteplici citazioni e la critica sociale che il film tenta di suggerire, perché comunque anche questa va ricercata e letta non nella storia ma nelle immagini e simboli di cui il film, soprattutto nel secondo tempo, è farcito.

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E torniamo alla domanda introduttiva: “quanto vale la vita di una persona?”. La risposta è semplice, molto poco dato che con 50.000 dollari uno può scegliere il modo migliore su come mettervi fine. Nella società moderna la gente ha paura di uscire di casa per via di terroristi, criminali e altro, la mancanza di sicurezza nella società “civilizzata” crea isolamento e diminuzione del reciproco rispetto. L’importanza che il denaro ha ormai nel quotidiano e disarmante, visto che grazie ad esso un qualsiasi individuo può soddisfare ogni suo vizio.

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Possiamo credere che non ci sia più nessuna speranza nella comunità? Vogliamo credere che la nostra importanza nella vita di tutti i gironi sia proporzionata ai nostri averi? Queste e altre ancora, sono le domande che suggerisce la visione del film quando, ad esempio, un qualsiasi macellaio, che potrebbe benissimo il vicino di casa con cui pranziamo alla Domenica, si premura con disarmante semplicità di ripulire una stanza dai supplizi appena compiuti su di un essere umano. Ma se il film di Roth per quanto grottesco e riuscito solo in parte (si perché il primo tempo era assai migliorabile) è finzione pura, una volta conclusa la visione le domande servite a chi vuole recepirle esigono delle risposte reali.

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