Favolacce

“Favolacce” secondo film dei Fratelli D’Innocenzo, conferma il talento dei due cineasti romani che dopo l’esordio con “La terra dell’abbastanza” e la sceneggiatura di “Dogman” diretto da Garrone si cimentano con una favola nera dai risvolti drammatici. Ambientato in una non precisata periferia romana “Favolacce” racconta la storia di un gruppo di famiglie, tra loro molto diverse, ma che hanno in comune un approccio alla vita quotidiana fatto di disillusione, monotonia e nessuna speranza verso il proprio futuro, ma solo rimpianti dei tempi passati. Tutti i loro stati emotivi si riversano su dei figli che in più di una occasione si dimostreranno ben più adulti dei genitori stessi (pur ereditandone i difetti peggiori). La piattezza delle giornate di una calda estate, inizierà lentamente a sgretolarsi proprio grazie alle azioni dei ragazzini, coscienti di come i grandi stiano spianando loro un futuro misero e non disposti ad accettarlo.

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“Quanto segue è ispirato a una storia vera, la storia vera è ispirata a una storia falsa…la storia falsa non è molto ispirata”, con questo incipit una voce fuori campo ci immerge nel racconto amaro di “Favolacce”. I Fratelli D’Innocenzo scrivono e dirigono una pellicola sospesa tra sogno e realtà, dove lentamente la percezione dei contorni viene meno, rimanendo rapiti da queste torride giornate estive. Trasportando e rielaborando in chiave attuale la favola de “Il pifferaio magico”, i due registi si concentrano sull’analisi di una generazione di genitori falliti, incapaci di portare avanti il proprio ruolo, finendo per riversare le colpe delle loro mancanze sui figli che vorrebbero solo essere amati, ma che finisco per diventre catalizzatori delle pulsioni altrui. Non è un caso che praticamente ogni adulto invidi la propria prole, in quanto questa ha la possibilità e il diritto di non preoccuparsi del proprio futuro se non tra qualche tempo, anche perché c’è chi deve ora interessarsene al posto loro. Un cerchio che si apre e si chiude costantemente e ogni volta si rinnova di generazione in generazione. Ma cosa succede se questo meccanismo, tanto semplice quanto complesso, ad un tratto si arrestasse?

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“Favolacce” nel suo incedere lento sembra voler sottolineare la necessità di ristabilire gli equilibri tra padri e figli, mogli e mariti, che nella società attuale, dove conta bearsi sempre di qualcosa con gli altri, stanno andando verso derive di allarmante superficialità. I registi romani per raccontare tutto questo stupiscono per la qualità della messa in scena. Scelte stilistiche mirate a creare un’estetica a tratti straniante, si innestano in una struttura narrativa drammatica di stampo decisamente classico. “Favolacce” fin dalla prima inquadratura riesce ad ammaliare e rapire lo sguardo, con quell’uso alternato di colori primari e complementari, un grandangolo che diventa via via sempre più oppressivo, fino alla scelta di diminuire al minimo l’utilizzo delle musiche. Tutto è curato nei minimi dettagli per creare un corpo cinema in collisione con la realtà.

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Qualcosa però in “Favolacce” sembra incartarsi. Corpo e sostanza, elementi di cui il film abbonda, non sembrano trovare un equilibrio tra di loro, come se uno volesse primeggiare sull’altra, finendo per appesantire la visione. Mentre la pellicola ammalia con la tecnica, l’attenzione viene distolta dalla storia, ma quando questa si fa via via più intricata e interessante tende a sviare completamente dall’immaginario visivo messo in scena. Si arriva alla fine con un senso di smarrimento che accende più di qualche punto interrogativo su quanto appena visto, come se la portata di “Favolacce” fosse di molto inferiore a quanto portato sullo schermo. Ma lasciando la pellicola riposare nella mente a fine visione, quella che lentamente si trasforma in certezza è che seppur imperfetto “Favolacce” conferma la bravura di due giovani autori del panorama cinematografico italiano, che con questo film non si sono limitati a filmare una ferita, ma a farci immergere in essa.

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