“Dark City” è la prova che il regista Alex Proyas ebbe un inizio carriera molto difficile sul piano produttivo, a tutto vantaggio di quello qualitativo. Dopo la complessa lavorazione che porta in sala l’adattamento de “Il Corvo”, il nostro talentuoso direttore mette la firma su quello che è diventato un altro indiscutibile cult degli anni novanta. Fresco del successo del film precedente Proyas con “Dark City” riesce quasi a stroncarsi da solo la carriera dato il vistoso flop commerciale a cui la pellicola andò incontro. Eppure non è difficile comprendere i motivi che hanno tenuto il pubblico lontano dalla sale, anzi volendo si possono raggruppare tutti in due sole parole: marketing sbagliato. Ma questo discorso magari lo affrontiamo più avanti, adesso occupiamoci della trama del film. John Murdoch (Rufus Sewell) si risveglia senza memoria nella vasca da bagno di un hotel, con un rigolo di sangue sulla fronte e la sensazione che quello non sia il suo posto. Il telefono squilla, quando risponde una voce gli intima di scappare il prima possibile perché degli uomini lo inseguono, si guarda attorno trova i vestiti e il cadavere di una donna. Scappa e la memoria inizia a ritornare molto lentamente.
Vagando di notte per la città John scoprirà, grazie all’aiuto del dottor Schreber (Kiefer Sutherland), che degli individui chiamati “gli stranieri” vogliono ucciderlo. Nel frattempo anche la polizia lo insegue in quanto credono che sia lui il killer di donne in giro da tempo per la città. John nel tentativo di mettersi in salvo scoprirà di possedere dei poteri telepatici, ma allo stesso tempo che la città altro non è che un laboratorio a cielo aperto utilizzato dagli “stranieri” per fare esperimenti sulla razza umana. Inizierà così una lotta per sopravvivere che lo condurrà verso una verità quantomai oscura. Il caro Cassidy Plissken de “La bara volante” è solito scrivere che i primi cinque minuti di un film ne determinano l’andamento. “Dark City” in questo piccolo lasso di tempo inanella una serie di scene che da sole bastano per farvi immergere nella storia, descrivere l’ambientazione e soprattutto dare la certezza che quanto verrà dopo sarò un crescendo di eventi difficili da dimenticare. Proyas che qui ha un buon budget per realizzare la sua visione mette assieme un thriller fantascientifico, contaminato da quei toni cupi, quasi horror che avevano caratterizzato “Il Corvo”. Il risultato finale è un film dalla forte personalità visiva ma anche capace di dare un senso compiuto a tutte le sue derivazioni.
“Dark City” racconta questa cupa storia in cui il protagonista aggirandosi tra le strade di questa città, che ogni notte cambia forma, deve mettersi in salvo dalle proprie paure e allo stesso tempo da questi “stranieri” che altro non sono se non la rivisitazione del più classico dei mostri: l’uomo nero. Nel film di Proyas troviamo nuovamente uno degli stilemi classici della fantascienza, ossia la manipolazione della realtà, la lotta tra conoscenza e ignoranza. John (e noi con lui), si risveglia in un mondo in cui l’uomo è assoggettato da poteri che ne controllano la volontà, che ne plasmano l’identità senza che questo se ne accorga. I vari personaggi oltre a John, tra cui il dottor Schreber e il detective Frank Bumstead (William Hurt), ruotano attorno alla verità che si nasconde negli abissi della città, interpretandola/accettandola da poli opposti a quello del protagonista. Il dottore è un doppiogiochista che vuole liberarsi dagli “stranieri”, mentre il poliziotto è l’uomo costretto ad accettare una verità che supera la fantasia o impazzire nel tentativo di reprimerla. Non tutto funziona nel film, infatti da un lato regia e impianto visivo riescono ad ammaliare per la totalità della durata, ma la sceneggiatura di David S.Goyer si rivela fin troppo verbosa e incapace di dare il giusto spessore agli eventi, preferendo temporeggiare in attesa della svolta finale. Questo non impedisce a “Dark City” di trovare un proprio spazio tra le migliori pellicole sci-fi di quel periodo, affiancandosi senza paura al primo “Matrix” o a “L’esercito delle 12 Scimmie”. Un film da riscoprire, da vedere e rivedere, che se sul fronte della computer grafica mostra il peso del tempo, l’utilizzo minimo della stessa non ne rovina lo spettacolo complessivo.
Riguardo al marketing
Nel 1998 quando uscì al cinema, trailer, locandine e tutto il materiale pubblicitario portava a far credere che questo non fosse un film di fantascienza, ma più che altro un horror dall’ambientazione noir. Ecco cosa intendevo sopra con “marketing sbagliato”. “Dark City” è un film che allora fu proposto al pubblico nel modo peggiore, ma ad Hollywood questa cosa è abbastanza ciclica, basti pensare al recente caso di “Blackhat”, thriller di Michael Mann proposto al pubblico tramite pubblicità che portavano a credere fosse un action muscolare. Ad ogni modo per rendere meglio l’idea, guardate il trailer italiano qui a fianco.