Cry Macho – Racconto crepuscolare
Inossidabile e fuori dal tempo il regista Clint Eastwood con “Cry Macho” conferma, non che ce ne fosse bisogno, la sua consueta eleganza nella messa in scena, ma anche una lucidità attoriale invidiabile seppur fuori tempo massimo per età fisica più che per presenza scenica. Disilluso western di frontiera “Cry Macho” si configura fin da subito come ennesima pellicola riuscita della carriera del cineasta, ma anche titolo di secondo piano seppur gradevole e per certi versi ben sopra la media delle pellicole americane attuali, incapaci di raccontare con linearità e schiettezza storie semplici, conflitti quotidiani dell’individuo.
“Cry Macho” ci racconta la storia di Mike Milo (Eastwood), ex cowboy di rodeo in disgrazia che dopo un incidente si rifugia nell’alcol perdendo tutto ciò che di più caro ha attorno. Dopo essere stato licenziato, sarà proprio il suo ex datore di lavoro, Howard Polk, a chiedergli aiuto dando così a Mike l’opportunità di riscattarsi da una vita consumata dai ricordi di glorie passate. Verrà chiesto al cowboy di andare in Mexico a recuperare Rafo, il giovane figlio di Polk che vive con la madre alcolizzata. Mike una volta trovato e convinto il ragazzo, inizierà con lui e il suo gallo da combattimento di nome Macho, il viaggio verso il Texas che cambierà la vita di entrambi.
Prima che un film crepuscolare “Cry Macho” è un dolce inno alla vecchiaia, non come meta d’arrivo ma come nuovo punto di partenza. Tratto dal libro omonimo di Richard Nash, il film che vede per la terza volta Eastwood collaborare con lo sceneggiatore Nick Schenk (“Gran Torino”, “The Mule”), vive su una ruvida dolcezza basata sulla figura del protagonista Mike Milo prima che sul confronto tra generazioni. Il cowboy senza gloria ne legami a cui fare ritorno è una figura da cui, grazie anche all’ennesima minimale interpretazione di Eastwood, è impossibile mantenere un qualsivoglia distacco emotivo. Se nella sua prima parte “Cry Macho” fatica a trovare un equilibrio tra sceneggiatura e messa in scena, nonostante sia lucidissimo nel piazzare gli elementi chiave della narrazione, è nella sua seconda parte, quando inizia il viaggio di Mike e Rafo, che il cinema irrompe prendendo il sopravvento e trasportando lo sguardo e le emozioni tra le polverose strade messicane, verso emozioni che non sono mai programmate, ma spontanee.
Clint Eastwood riesce ancora una volta, all’età di novant’anni, a sottolineare la bellezza di un cinema scevro di effetti speciali ed espedienti narrativi pianificati dall’ufficio marketing piuttosto che dal team creativo. “Cry Macho”, proprio come il suo protagonista, appartiene, nel bene e nel male, ad un modo di fare e intendere il cinema americano che non esiste quasi più, se non nei registi che riescono a piegare la macchina produttiva alle proprie esigenze. Mike Milo prima che gli stilemi del protagonista Eastwoddiano, incarna una possente riflessione sul cinema statunitense contemporaneo, troppo impaurito dal commettere errori al punto da evitare di avventurarsi in territori inesplorati, crogiolandosi nei successi passati o evitando di affrontare una realtà che chiede un rinnovamento, un rischio. “Cry Macho” sottolinea allo sguardo l’eleganza della semplicità e la sua contemporaneità. Eastwood seppur in maniera decisamente meno incisiva del solito, ci ricorda che il cinema, alla fin fine, è uno spettacolo molto più semplice e diretto di quanto si sia disposti a credere. Per questa ennesima lezione di “umiltà cinematografica” non lo ringrazieremo mai abbastanza.