Babylon

Babylon – Il cinema secondo Damien Chazelle

In “Babylon” di Damien Chazelle ieri e oggi convivono in un film che racconta come il cinema sia ciclicamente sull’orlo del baratro, muore e rinasce continuamente, mai in modo indolore, ma oramai invisibile agli occhi del pubblico, che fatica sempre di più a notare questa resurrezione quando essa passa proprio davanti al suo sguardo. Enorme, fracassone, ma allo stesso tempo malinconico e sognante, il quarto film del regista americano è sicuramente un titolo in cui luci e ombre lottano costantemente, dove spesso l’istante vanifica quando di buono fatto in precedenza. Un tripudio di corse folli e sterzate improvvise che affascinano e respingono allo stesso tempo, in un colossal che in fin dei conti vuole “solamente” celebrare il cinema (americano).

Babylon

Ambientato a cavallo degli anni ’30, “Babylon” racconta la storia di un’aspirante attrice, di un attore affermato e di un giovane ragazzo messicano che sogna di partecipare alla creazione di un film. Entrambi vivranno in modo assai diverso la grandezza e allo stesso tempo le difficoltà di un’industria che sta per passare dal muto al sonoro, con tutte le problematiche che questa nuova tecnologia comporta. Dalle stelle alle stalle queste tre vite si intrecceranno, mescolandosi, avvicinandosi e allontanandosi per sempre, sullo sfondo di un’industria che per quanto ricca ed esuberante deve comunque fare i conti con i gusti del pubblico, giudice e giuria che, spesso inconsciamente, decide le sorti dell’intero settore.

Babylon

Cinema che ragiona su se stesso, celebrandosi e successivamente criticandosi (ma mai in modo veramente tagliente), “Babylon” è una gigantesca produzione di oltre tre ore che racconta l’avvento del sonoro, prodigio tecnico che ha rivoluzionato ogni cosa, decretando la fine di affermate star e l’imposizione degli studios al posto della miriade di sgangherate produzioni allestite nei luoghi più disparati. Damien Chazelle con non poca arroganza da vita ad un progetto ambizioso, uno di quelli in grado di glorificare o distruggere una carriera e lo fa, ovviamente, quando ha la strada spianata dai premi vinti con il precedente “La La Land“. Babylon è un racconto in due parti distinte in antitesi tra loro, tanto euforica la prima quando malinconica la seconda.

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Nella prima parte il regista, qui anche sceneggiatore, ci trasporta dentro i fasti della Hollywood del cinema muto, fatto di “soldi facili” generati dalla semplicità con cui si poteva accedere ai mezzi necessari per produrre e distribuire un’opera. Un’epoca al suo apice in cui la presenza scenica era la sola cosa importante, dove a parte il protagonista qualsiasi altra figura era intercambiabile. Un tempo in cui ritrovarsi nel luogo giusto al momento giusto (la festa iniziale ad esempio) poteva spalancarti le porte di quel mondo come richiuderle in un attimo. Non era importante se fino al giorno prima eri un semplice fattorino, una volta entrato avresti potuto diventare chiunque, bastava solo avere un po’ d’ambizione.

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Nella seconda parte “Babylon” mette da parte le feste, i set improvvisati e scene con il tramonto di sfondo e lamusica in crescendo, per trasportare lo sguardo nelle prime produzioni sonore, dove il set diventava di colpo serioso, un luogo in cui regnava un silenzio tombale ma necessario. E proprio qui che iniziano a mostrarsi le prime crepe nella narrazione, quando il film rallenta per raccontare l’avvento di una rivoluzione capace di rimescolare ogni cosa, distruggere carriere, sogni e aspirazioni. Quando “Babylon” rallenta purtroppo mette in luce il fatto che i suoi protagonisti per quanto magnificamente interpretati non siano stati fino ad allora il motore trainante dell’intera operazione, ma solamente pedine necessarie.

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Via, via che il film smette di parlare di cinema, trascinando lo sguardo nel dramma dei suoi protagonisti, perde quell’alchimia narrativa che nella prima ora e mezza catturava completamente l’attenzione. Forse perché l’epilogo è intuibile fin dall’inizio, o forse perché Chazelle non si rende conto che al pubblico, dopo quel pompatissimo primo tempo, non è minimamente interessato alle vicende di un attore distrutto dall’avvento del sonoro, o di un giovane produttore innamorato della sua attrice di punta, ma vuole solamente vedere ancora attimi di quel mondoe ccessivo e fuori misura. E così “Babylon” finisce per essere vittima di se stesso, corpo di un cinema che non intercetta più gli sguardi, in cerca un intreccio che si rivela soporifero.

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Nella parte finale però Chazelle gioca l’intera credibilità del raccondo, facendo infuriare e affascinare allo stesso tempo, grazie a una sequenza in cui uno dei nostri protagonisti, si ritroverà a ripercorrere la sua storia all’interno di una sala cinematografica, vedendo proiettato sullo schermo un film che sembra raccontare perfettamente la sua vita e, a cui egli stesso aveva potuto assistere a una primissima versione dello stesso su di un altro set. Finale che, come già scritto, non mancherà certo di farsi odiare da molti, con quella strafottenza con cui in un attimo dal 1957 arriva fino ai giorni nostri, per poi ritornare a quel 1927 dove una donna vestita di rosso è ancora una fiamma impressa nell’immagine. L’unica salvezza possibile.

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“Babylon” non è un capolavoro, nemmeno il tempo basterà a farlo divenire tale. Il film di Chazelle non è un’opera pienamente riuscita e nemmeno originale, dato che per sua stessa ammissione non vuole essere il titolo che racconta per la prima volta l’avvento del sonoro nel cinema a discapito delle produzioni mute, ma l’ennesimo. Però nel suo marasma interno, in quei tumulti in cui crea e distrigge ogni cosa allo stesso tempo, “Babylon” è un titolo che si ama e si odia, che diverte e annoia in egual misura, capace di manetere comunque viva l’attenzione, ma soprattutto di generare discussione. E forse è proprio questo il suo maggior pregio.

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