Miami Vice

Miami Vice – L’importanza del momento

“Che stupidi che siamo, quanti inviti respinti, quante parole non dette, quanti sguardi non ricambiati. Tante volte la vita ci passa accanto e noi non ce ne accorgiamo nemmeno”

La Fate ignoranti

Potrebbe sembrare strano iniziare a parlare dell’ultimo film di Michael Mann citando un monologo di un film italiano di stampo drammatico, ma quando la pellicola finisce ci si rende conto che in quelle poche parole c’è il completo riassunto di “Miami Vice”. Uno dei telefilm più famosi del panorama televisivo, mito generazionale degli annni ’80, approda oggi in una veste insolita sul grande schermo. L’adattamento di Mann non è un semplice rinverdire i fasti del passato, ma un fine lavoro di cesellatura per rendere moderno e cinematografico un prodotto concepito per la serialità televisiva.

Miami Vice

Nel 1993 Brian De Palma portò sul grande schermo la saga di “Mission: Impossibile”, egli fece un’operazione ardita consistente nel prendere il telefilm e fargli implodere al suo interno gli elementi cinematografici accontentando al primo impatto ogni tipo di spettatore, sia esso proveniente dall’esperienza catodica, come pure quello al primo approccio con la saga e personaggi. Michael Mann con “Miami Vice” compie l’operazione opposta, prende il seriale televisivo e lo fa letteralmente esplodere andando così a spalmare i vari pezzi nell’immaginario cinematografico. Quello che a prima vista sembra un film che ha poco o niente da spartire con la serie tv, si rivela ai più attenti invece aderente come mai nessun adattamento fu prima d’oggi.

Questo lo si capisce solo ed esclusivamente a fine proiezione dove la struttura narrativa ha terminato di raccontare la semplicistica trama, e d’un tratto vedendo l’apparizione dei titoli di coda non possiamo non collegare a come questa pellicola si apra, evolva e chiuda come una puntata qualsiasi di una qualsivoglia serie televisiva, con la differenza che a principio manca il riassunto delle puntate precedenti ed alla fine “l’assaggio” di quello che accadrà. Scelta ardita, ma funzionale perché proietta fin da subito lo spettatore nel pieno dell’azione facendo assimilare personaggi ed ambientazioni senza dover seguire la classica didascalia adottata in questo tipo di produzioni.

Ma soprattutto permettendo di vedere l’evolversi decriptando le personalità dei protagonisti senza bisogno di guidare con mano chi sta vedendo la storia. Dai tempi dell’adattamento di De Palma il lavoro di Mann è il primo vero passo avanti, o diverso se vogliamo, compiuto dal cinema per ingrandire qualcosa di piccolo e durevole nel tempo. L’operazione è riuscita talmente bene che a fine visione lo spettatore ne vuole ancora, perché conscio di come questo “Miami Vice” cinematografico possa essere visto solamente in sala, mai potrà venir contenuto nelle ridotte dimensioni di uno schermo casalingo, perché queste gli sarebbero strette allo stesso modo in cui larghe sarebbero quelle del cinema per la serie televisiva.

Ma che tecnicamente fosse un buon film, anche se la trama è abbastanza esile, non se ne avevano dubbi, però che riesca dove questo genere solitamente fallisce è una vera e propria rivoluzione, ovvero a parlare di qualcosa che non sia solo finzione spettacolare. “Miami Vice” non è un film incentrato solamente sulla droga, polizia in incognito e triple identità, ma Mann parla della vita, dello scorrere del tempo e dell’importanza di afferrare il momento, ecco il perchè del cappello introduttivo.

L’esistenza è frenetica, c’è lo ricorda continuamente con quei primi piani che si susseguono a velocità da capogiro e che trovano il loro contrasto con tutte quelle riprese panoramiche che non riescono mai a portare avanti la storia dei suoi personaggi, perché per osservare la vita di una persona bisogna stare vicini ad essa, assaporare non quello che dice ma come lo dice, le sue più piccole espressioni, la sicurezza del viso e la sua drammaticità.

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Ecco che quindi la storia d’amore tra Sonny e Isabella per quanto sembra su binari classici diviene passionale e combattuta proprio come una relazione a due deve essere. Una ricerca costante dell’equilibrio tra verità e menzogna, un camminare in bilico su esigenze e segreti altrui, muovendosi sul bisogno di sentimenti reciproci da ricercare in qualcuno di diverso, opposto o meno che sia. Ecco quindi consumarsi nella malinconia la fine, scontata fin dall’inizio, di un rapporto amoroso che chiede ancora un po’ di tempo in più, ancora della fortuna per creare una continuazione.

Ma al termine di questo, il disegno del regista è ancora più chiaro e paradossalmente semplicissimo, parla di una cosa che tutti sappiamo, ossia che la vicinanza unisce proprio come la distanza separa. Ed è l’addio combattuto di Isabella che colpisce il cuore, è il viso disperato di Rico in ospedale che ci rimane impresso, sono i titoli di coda quelli che non dimentichiamo, titoli che ancora una volta ci portano alla domanda sul cosa abbiamo visto e se è stato di nostro gradimento. Purtroppo la risposta si trova nell’aspettativa prima della visione. Comunque questo è Michael Mann e questo è il suo cinema.

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