Ghost in the Shell

Ghost in the Shell – La forma del guscio

Il punto di partenza a cui fa riferimento “Ghost in the Shell” del regista Rupert Sanders (“Biancaneve e il cacciatore”), sono gli esperimenti cinematografici di Rodriguez Snyder, capaci con “Sin City” e “300” di trasportare il racconto a fumetti con una maniacale ossessione riguardo la forma dello stesso, in una visione cinematografica al limite del plagio estetico, più che del sentito omaggio.

Scegliere delle opere di partenza il cui contenuto era scarno per mettere in risalto l’estetica del tratto, contribuirono al successo della migrazione su celluloide delle stesse (anche se in seconda battuta questo genere di adattamento ha mostrato il suo essere efficace come esperimento isolato, non è un caso che entrambi i seguiti di questi titoli abbiano fallito proprio dove gli originali fecero gridare al miracolo).

La versione cinematografica dell’anime “Ghost in the Shell” riesce, proprio come i titoli appena citati, nell’impresa di trasformare il contenuto animato (non un fumetto questa volta), in una pellicola con attori in carne e ossa riproponendo in chiave aggiornata quell’estetica cyberpunk che ha inghiottito gli sguardi di almeno due generazioni di spettatori e addetti ai lavori. Dove il lavoro di Sanders differisce da quello degli altri due registi sta nella necessità, non propriamente in fase di regia ma di sceneggiatura, di sfoltire un racconto per renderlo filmabile e comprensibile da un pubblico ben diverso da quello della controparte animata.

Qui che l’esperimento si assume il suo rischio maggiore, anche perché al contrario dei fumetti di Miller dove la forma vince sulla sostanza, l’anime diretto da Oshii di contenuti ne ha fin troppi. “Ghost in the Shell” è una pellicola di fantascienza dall’impatto estetico fortissimo, il bagliore dei neon contrapposto al grigiore dei bassifondi rimane impresso per molto tempo a visione terminata, ma a minare l’intera riuscita del racconto sta non tanto nel aver sfoltito con l’accetta molti dei temi trattati nell’originale, ma nell’arco narrativo scelto per la protagonista principale, il maggiore, interpretato dalla diva sci-fi per eccellenza Scarlett Johansson.

Se tematiche, uno stile narrativo complesso e decisamente troppo orientale (questo va sottolineato dato che l’originale animato è un cult in Giappone e per noi è stato una rarità a cui pochi appassionati hanno avuto accesso per molti anni), erano un ostacolo per una fruizione globale e non ristretta a una cerchia di spettatori, a deludere è la scelta di riciclare lo stereotipo dell’eroe tradito, che dopo aver scoperto la verità sul suo passato diventa di conseguenza nemico da combattere, da parte di coloro che fino a quel punto erano amici.

Questa scelta disinnesca una carica visiva e produttiva potentissima, che nonostante la spettacolarità (alcune sequenze riprese di peso dall’anime regalano i momenti migliori della pellicola), non riesce a trovare un intreccio originale per la protagonista che si trova al centro delle vicende. “Ghost in the Shell” purtroppo è una pellicola con una forma esemplare mel rispetto del materiale di partenza, ma nella sostanza sembra il remake cyberpunk del primo Jason Bourne cinematografico, il che rende il film perfettamente godibile a qualunque tipo di sguardo, ma allo stesso tempo lo riduce ad un bellissimo e dimenticabile esercizio stilistico, o per essere più diretti l’ennesima occasione mancata.

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Ghost in the Shell
2.5
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